POETANDO

In questo blog raccolgo tutti gli scritti, poetici e in prosa, disegni e dipinti di mia ideazione. Recensioni stilate da me e da altri autori. Editoriali vari. Pubblico poesie, racconti e dialoghi di vari autori.Vi si possono trovare gallerie d'arte, fotografie, e quant'altro l'estro del momento mi suggerisce di pubblicare. Sulla banda destra della home page, appaiono i miei e-book poetici ed altre sillogi di alcuni autori. Così come le riviste online de L'Approdo e de La Barba di Diogene, tutto si può sfogliare, è sufficiente cliccare sulla copertina. Aggiungo che , sempre nella barra a destra della home page ci sono mie video poesie, con sottofondo musicale. E' sufficiente cliccare sull'immagine per ascoltare testo e musica, direttamente da YouTube. Tutte realizzate dalla eclettica Anna Montella., Ci sono poi i miei libri scritti nel corso di circa 10 anni. Buona lettura e buon ascolto!

martedì, febbraio 14

POETI E UOMINI A CONFRONTO di Roberto Di Pietro


POETI  E  UOMINI  A  CONFRONTO
(Una lezione riproposta in nuce)

Roberto Di Pietro

Premessa. Il tema “la donna e la guerra” -- individuato dal Centro Studi P.A.N.I.S. di Torino come fulcro di tutte le iniziative in programma per il 2000-1 – costituiva un presupposto in qualche misura vincolante nella scelta di liriche italiane da destinarsi soprattutto ad uno studio tecnico-strutturale della forma poetica e delle relative pertinenze fonosimboliche, secondo gli obiettivi didattici specificatamente assegnati al sottoscritto.
Nel tentativo di conciliare i requisiti, mi orientavo verso due celebri componimenti di poeti coevi – “Alexandros” di Giovanni Pascoli (1855-1912) e “Consolazione” di Gabriele D’Annunzio (1863-1938) – atti a consentire sia un’analisi metrico-ritmica del verso endecasillabo in particolare, nonché un opportuno raffronto fra i differenti usi stilistici di tale metro nei rispettivi contesti, sia  la verifica collegiale di determinati assunti filosofico-psicologico-letterari genericamente inquadrabili nella suddetta tematica dell’anno.



*    *    *

ALEXANDROS

(Poemetto pubblicato nel febbraio 1895; inserito in “Poemi Conviviali” nel 1904)
(Metro: terzine incatenate, rimanti secondo lo schema ABA, BCB, ecc.)

I.
-- Giungemmo: è il Fine.  O sacro Araldo, squilla!
Non altra terra se non là, nell’aria,
quella che in mezzo del brocchier vi brilla,

o Pezetèri: errante e solitaria
terra, inaccessa. Dall’ultima sponda
vedete là, mistofori di Caria,

l’ultimo fiume Oceano senz’onda.
O venuti dall’Haemo e dal Carmelo,
ecco, la terra sfuma e si profonda

dentro la notte fulgida del cielo.

II.
Fiumane che passai! Voi la foresta
immota nella chiara acqua portate,
portate il cupo mormorìo, che resta.

Montagne che varcai! Dopo varcate,
sì grande spazio su di voi non pare,
che maggior prima non lo invidiate.

Azzurri, come il cielo, come il mare,
o monti! o fiumi! era miglior pensiero
ristare, non guardare oltre, sognare:

il sogno è l’infinita ombra del Vero.

III
Oh! Più felice, quanto più cammino
m’era d’innanzi; quanto più cimenti,
quanto più dubbi, quanto più destino!

Ad  Isso, quando divampava ai venti
notturno il campo con le mille schiere,
e i carri oscuri e gli infiniti armenti.

A  Pella! Quando nelle lunghe sere
inseguivamo, o mio Capo di toro,
il sole; il sole che tra selve nere,

sempre più lungi, ardea come un tesoro.

IV
Figlio d’Amynta! Io non sapea di meta
allor che mossi.  Un nomo di tra le are
intonava Timotheo, l’auleta:

soffio possente d’un fatale andare,
oltre la morte; e m’è nel cuor, presente
come in conchiglia murmure di mare.

O squillo acuto, o spirito possente,
che passi in alto e gridi, che ti segua!
ma questo è il Fine, è l’Oceano, il Niente…

E il canto passo ed oltre noi dilegua. –

V
E così piange, poi che giunse anelo:
piange dall’occhio nero come morte;
piange dall’occhio azzurro come cielo.

Ché si fa sempre (tale è la sua sorte)
nell’occhio nero lo sperar, più vano;
nell’occhio azzurro il desiar, più forte.

Egli ode belve fremere lontano,
egli ode forze incognite, incessanti,
passargli a fronte nell’immenso piano,

come trotto di mandre d’elefanti.

VI
In tanto nell’Epiro aspra e montana
filano le sue vergini sorelle
pel dolce Assente la milesia lana.

A tarda notte, tra le industri ancelle,
torcono il fuso con le ceree dita;
e il vento passa e passano le stelle.

Olympiàs in un sogno smarrita
ascolta il lungo favellìo d’un fonte,
ascolta nella cava ombra infinita

le grandi quercie bisbigliar sul monte.

(G. Pascoli)

La silloge da cui è tratta la lirica “Alexandros” comprende venti componimenti di varia lunghezza, scritti dal Pascoli a partire dal 1892, alcuni dei quali furono pubblicati su “Convito”, nota rivista letteraria dell’epoca, diretta da Adolfo De Bosis.  Per questa raccolta,  nel cui titolo già risuona il ricordo dei poemi che, presso gli antichi, venivano cantati durante i banchetti, il poeta si ispira quasi esclusivamente alla Grecia classica, mentre i “Carmina” latini (un ideale complemento) si rifanno a quella romana e alle vicende paleocristiane. Infatti, secondo le intenzioni dell’autore, i “Conviviali” vogliono rappresentare una storia ideale del mondo classico: vi si traccia la parabola della civiltà greca a partire dai tempi epici immortalati da Omero fino all’ascesa di Alessandro il Macedone; e di lì, attraverso la rievocazione della gloria e della decadenza di Roma (Tiberio), si giunge al presentimento delle imminenti invasioni barbariche (Gog e Magog) e infine ai primi albori della rivelazione cristiana (La Buona Novella: In Oriente; In Occidente) che il poeta sente non solo come messaggio di fraternità e di pace, ma anche come coscienza dell’incerto dramma del vivere. In effetti, nella sua particolare dimensione simbolistica, anche quando canta l’armonia dell’anima greca (Solon) in una luce di bellezza e di eroismo (Odisseo, Achille), la poesia del Pascoli non manca di cogliere un senso di effimero atemporale e ineluttabile nei destini dell’uomo. Del resto l’autore medesimo, nella prefazione a questa sua opera, oltre ad aderire esplicitamente ai programmi del “Convito” -- “salvare qualche cosa bella e ideale dalla torbida onda di volgarità che ricopre ormai tutta la terra di Leonardo…e Michelangelo” -- definiva il D’Annunzio “fratello maggiore e minore”, riconoscendo così anche la propria affinità spirituale con l’inquieta atmosfera del Decadentismo.

L’analisi contenutistica esulando dagli scopi eminentemente “tecnici” di queste mie lezioni, suggerirei agli iscritti di avvalersi, all’uopo, della ben nota opera critica di Baldi-Giusso-Razetti-Zaccaria, intitolata “Dal testo alla storia, dalla storia al testo” (Volume III, Tomo Secondo/a), attualmente in uso presso i licei italiani.  Tuttavia, a beneficio di chi questo libro di testo non lo conoscesse e non riuscisse a procurarselo, ne ricaverò alcuni passi significativi di commento al poemetto in esame, integrandoli con alcune mie osservazioni collaterali, o ulteriori notizie anche bibliografiche.

Il limite e il nulla.  Delle sei sezioni che compongono “Alexandros”, le prime quattro sono occupate dal discorso di Alessandro alle sue truppe.  L’eroe ha conquistato tutto ciò che era possibile conquistare, ha visto e sperimentato tutto il visibile e lo sperimentabile, ed ora è giunto ai confini della terra, sulle rive dell’Oceano: non vi è più nulla da conquistare se non la luna, che però splende sospesa nell’aria, remota e inaccessibile.  Dinanzi agli occhi del conquistatore si stendono le acque dell’Oceano, ferme e senza onde.  Già questo carattere della realtà spaziale sembra caricarsi di segreti sensi simbolici, come tutti i particolari del poemetto, che evocano intorno a sé un’atmosfera suggestiva ma spesso cifrata, inafferrabile: l’oceano immobile, senza vita, a differenza del mare, sembra proporsi come immagine del nulla che si stende al di là dell’estremo limite raggiungibile dalla conoscenza umana.  L’eroe si trova in una zona indistinta, dove la terra sfuma e si confonde con il cielo notturno.  La terra è il campo dell’esperienza sensibile e della conoscenza razionale, ma non ha confini precisi, al suo estremo limite si perde nell’indefinito, nell’oscurità di un mistero che, non essendo penetrabile dall’uomo nonostante la sua inesausta ricerca, si trasforma nel nulla. L’immagine sarà ripresa nella quinta e sesta sezione.

Il sogno e il vero.  Nella seconda sezione, Alessandro si volge al passato, a tracciare come un bilancio della sua esperienza esistenziale, a rievocare il cammino compiuto prima di giungere a quel punto conclusivo. “Fiumane” e “montagne” segnano il limite al sogno, l’ostacolo che alimenta l’illusione, che imprime la spinta a procedere oltre nella ricerca.  Con la fiumana si collega l’immagine della foresta che si specchia nell’acqua e che rimane immutata mentre il fiume scorre; e ad essa si affianca quella equivalente del “cupo mormorìo, che resta.” Sono due immagini fortemente suggestive, ma anche enigmatiche.  Non è facile coglierne il significato simbolico [n.d.r. non a caso, preciserei, poiché il simbolo in quanto tale non è mai suscettibile di una completa decodificazione], ma probabilmente vi si possono scorgere legami con il tema dominante di tutta la poesia: l’irraggiungibilità del sogno. L’acqua che scorre via può essere vista come simbolo della ricerca inesausta, del protendersi incessante verso l’oggetto del sogno, verso la sua realizzazione; l’immagine immobile della foresta e quella del mormorio perdurante possono invece alludere al fatto che è preferibile rinunciare all’avventura conoscitiva -- che approda solo alla sconfitta e al nulla, in quanto la meta è inafferrabile – e limitarsi a sognare: infatti l’immagine riflessa della foresta è un’apparenza illusoria, e può quindi simboleggiare l’illusione. La conferma sembra venire dall’immagine successiva delle “montagne”, il cui significato simbolico è esplicitato dal poeta stesso, per bocca del suo eroe.  Al di qua degli ostacoli che impediscono la vista, il sogno può evocare spazi infiniti di là da essi; ma, una volta raggiunta la cima, ciò che si può vedere è deludente: non è quell’infinito che il sogno vagheggiava. Ne deriva che è sempre preferibile fermarsi al di qua dell’ostacolo: limitarsi al “sogno” che è stimolato da quella barriera medesima, anziché volerla varcare alla ricerca del “Vero”.  Se il “vero” è limitato e deludente, il “sogno” lo ingrandisce all’infinito (anche se è un’”ombra”, qualcosa di inconsistente). Il Pascoli riprende qui, evidentemente, motivi leopardiani. Un chiaro rimando intertestuale, quasi una diretta citazione, sembra il particolare dei monti “azzurri”: essi richiamano un passo analogo delle “Ricordanze”, dove le montagne costituiscono l’ostacolo alla vista che suscita l’immaginazione (“Quei monti azzurri,/che di qua scopro, e che varcare un giorno/io mi pensava, arcani mondi, arcana/ felicità fingendo al viver mio!”); ma nel motivo leopardiano Pascoli introduce una sensibilità più morbida e inquieta, tipicamente decadente: il “sogno” non è solo l’indefinito dell’immaginazione, ma è “ombra”, è l’abbandonarsi voluttuoso ad una zona oscura del reale, che attrae e inghiotte. 

* Raccomanderei in ogni caso di consultare, parallelamente, le copiose e illuminanti pagine che Mario Pazzaglia (Letteratura Italiana, Volume Terzo: l’Ottocento – Zanichelli) dedica al concetto di infinito-indefinito nella filosofia di Giacomo Leopardi, come pure l’analisi strutturale che lo stesso autore offre della lirica leopardiana “L’infinito”. Ci basti intanto la parola diretta di Leopardi, citata da un appunto istruttivo del suo “Zibaldone”: “Veniamo all’inclinazione dell’uomo all’infinito. Indipendentemente dal desiderio del piacere, esiste nell’uomo una facoltà immaginativa, la quale può concepire le cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non sono.  Considerando la tendenza innata dell’uomo al piacere, è naturale che la facoltà immaginativa faccia una della sue principali occupazioni della immaginazione del piacere.  E stante la detta proprietà di questa forza immaginativa, ella può figurarsi dei piaceri che non esistono, e figurarseli infiniti 1. in numero, 2. in durata, 3. e in estensione.  Il piacere infinito che non si può trovare nella realtà, si trova così nella immaginazione, dalla quale derivano la speranza, le illusioni, ecc.  perciò non è maraviglia 1. che la speranza sia sempre maggiore del bene, 2. che la felicità non possa consistere se non nella immaginazione e nelle illusioni.”

L’inseguimento del sole e la rievocazione del passato.  Nella terza sezione viene ripreso il concetto già espresso nella seconda: “era miglior pensiero/ristare, non guardare oltre, sognare”, non affrontare l’avventura della ricerca. Alessandro, riandando col ricordo al passato, vede ora chiaramente come la felicità fosse nell’attendere la vita, quando la vita era ancora tutta da vivere, con le sue fatiche, le sue prove, i suoi dubbi..  Lo slancio giovanile del sogno si compendia nell’inseguimento del sole al tramonto, che “ardea come un tesoro”:  racchiudendo in sé tutte le mete vagheggiate dal desiderio. Ma, nelle lunghe cavalcate durante le sere estive, il sole che si allontana sempre più e appare irraggiungibile, sembra un presagio dell’inevitabile scacco cui è destinata la ricerca. E le “selve nere” tra cui si profila il disco del sole sfuggente, sembrano caricarsi di un significato lugubre: alludere alla morte come l’unico “vero” cui si approda con certezza, una volta bruciato il “sogno” nell’azione.
Il flauto sacro.  Nella quarta sezione si delinea il momento in cui il cammino della ricerca era iniziato: è un’evocazione nostalgica che nasce dalla delusione presente, dal confronto con la realtà, dalla consapevolezza dello scacco.  Il “nomo” [inno] che intonava “Timotheo, l’auleta” [suonatore di flauto] era come un messaggio arcano: spingeva il giovane Alessandro alla ricerca come la voce irresistibile di un destino già segnato che lo obbligava a seguire il suo percorso, anche se la meta era allora ignota. Quella voce è sempre rimasta segretamente presente in lui, e anche ora che il viaggio è terminato, egli la sente passare in alto; ma ormai gli è impossibile seguire quel misterioso invito, deve confrontarsi con un confine insuperabile oltre il quale vi è solo il nulla.  Anche il suono del flauto si carica di echi simbolici. Come suggeriscono Giorgio Bàrberi Squarotti e Stefano Jacomuzzi, esso può rappresentare l’arte che spinge ad una conoscenza ultima delle cose:  l’uomo di alto valore spirituale è indotto ad una ricerca incessante, ma non può superare i propri limiti, a un certo punto deve fatalmente arrestarsi, insoddisfatto e angosciato.
L’auscultazione del mistero.  Terminato il discorso di Alessandro alle sue truppe, nella quinta sezione prende la parola il poeta: se nel pianto dell’eroe sottolinea lo sconforto della delusione, al tempo stesso ci dice che il desiderio non scompare, anzi si esaspera perché inappagato (“nell’occhio azzurro il desiar, più forte”).  Ma dinanzi ad Alessandro, come già delineato nella prima sezione, c’è ora l’enigma insuperabile, che si presenta come un brulicare di rumori misteriosi nel buio, come un urgere di forze “incognite, incessanti” che restano oscure e indefinite. Si raffronti questa situazione con quella, omologa, che il Pascoli raffigura nell’ “Assiuolo” e in “Suor Virginia”, dove parimenti l’ignoto parla attraverso rumori indistinti che, nell’ombra, assumono il valore di arcani messaggi indecifrabili.  Si tratta in effetti di un topos della poesia pascoliana, spesso sospesa sulla soglia che divide il reale da un “di là”.  E come già nelle due liriche segnalate, anche qui l’oscurità si carica di un senso della fine, suggerito da quell’occhio “nero come morte”, in cui “lo sperar” si fa “più vano”. Così la sconfitta esistenziale nella ricerca di una conoscenza totale del “vero”, si risolve emblematicamente in uno sprofondare nel nulla.
Il “nido” e la figura materna.  Nell’ultima sezione, a questo scacco esistenziale si contrappone quella che, al Pascoli, sembra essere l’unica alternativa possibile: anziché consumarsi in un’avventura fallimentare, sarebbe “miglior pensiero” restarsene nei limiti accoglienti, tiepidi e protettivi del “nido”, qui evocato dalle “vergini sorelle” che filano la lana per il “dolce Assente”, e ancor più dall’immagine della madre Olympiàs, che smarrita nei propri sogni vespertini, si lascia cullare dal mormorio di una fonte e dal bisbigliare delle “grandi” querce. [N.d.r. Un aggettivo, quest’ultimo, che si direbbe quasi pleonastico ma che, a mio giudizio, risulta non a caso caricato di simbolicità antitetica:  a ben pensarci, si è in fondo portati a contrapporre idealmente la solidità materiale di quelle “grandi” querce all’assai più fragile “grandezza” delle conquiste del figlio deluso. Quanto alla “cava ombra infinita” in cui l’anziana donna sosta, a rigor di logica la si può associare alla precedente raffigurazione del “sogno” come “infinita ombra” della realtà.  Ma ecco che il termine “ombra” ricompare per affacciarsi anche in questo finale dai contorni peraltro idilliaci.  Che cosa se ne può eventualmente desumere? Le indicazioni che ritengo utile fornirvi qui di seguito potrebbero suggerire, per via indiretta, un’ipotesi interpretativa piuttosto attendibile.] 

* Sulla tematica pascoliana del “nido”, consiglierei anzitutto di consultare (a p.261-4 dello stesso testo succitato) l’analisi semiotica che della poesia “X Agosto” redige Angelo Marchese; come pure un interessante saggio di Bàrberi Squarotti (“Simboli e strutture della poesia del Pascoli”, D’Anna, Messina-Firenze 1966), in cui, fra l’altro, si legge: “E’ quella della madre, una presenza continua, ossessiva. Come centro del nido, la madre è autentico compendio di tutti i legami viscerali del sangue, in una tipica situazione della società italiana e borghese.” E, più avanti, ecco un nesso significativo: “Discende da questa centralità del personaggio materno nel discorso pascoliano del “nido”…quella tentazione dell’annullamento, del suicidio, che proprio in colloqui con la madre [n.d.r. la quale, non a caso, interviene per trattenere il figlio “Zvanì” con rimproveri e ammonimenti dissuasivi: si ricordi “La Voce”] puntualizzano l’estrema irrazionalità degli impulsi affettivi del Pascoli insieme con la precarietà delle ragioni dell’esistenza nell’ambito di una società ridotta alla sua cellula primordiale.” In realtà, quindi, quel “nido” familiare ha valenze ambigue: senza dubbio è un “rifugio” gradito, ma al tempo stesso risulta carico di tensioni oscure, sotterraneamente distruttive, che non sfuggono alla coscienza del poeta medesimo, che suscitano in lui occasionali insofferenze, moti repressi di ribellione, “biasimevoli” bisogni di fuga e infine, dati gli intimi sensi di colpa, desideri di evasione definitiva nell’autoannullamento fisico.
Si mediti, per giunta, su quanto scrive il Pazzaglia (ibidem, p. 121) riguardo alla tematica del “nido” considerata in stretto rapporto con le vicende personali del Pascoli: “Il ‘nido’ (è sintomatica l’immagine animale, che stabilisce una congruenza uomo/natura) è il nucleo della famiglia, chiuso gelosamente, nella propria autonomia totale, a ogni reale espansione (e anche motivazione) sul piano storico e sociale.  Al costituirsi di questo mito contribuirono molti fattori biografici: il precoce distacco dalla madre per il collegio, la morte del padre, figura di sicurezza economica e di protezione, che scatena la dispersione della famiglia; e anche l’esperienza di una società ostile contro cui il nido domestico appare l’unica difesa; come lo è in un universo inconoscibile e inquietante.  Esso divenne così emblema da opporre a quello di un cosmo diseredato; gli affetti, che solo nel ‘nido’ possono essere veramente esercitati, sono l’unico modo di opporsi alla morte che vanifica ogni cosa; e a una società dove fatale apparve al Pascoli il dominio della violenza, dell’ingiustizia, del male.  Questa idea così limitatrice, oltre che pessimistica, del sociale, ridotto ai soli legami affettivi del sangue, spiega, secondo i recenti interpreti, anche l’idea di un’autarchia del ‘nido’ sul piano economico oltre che sociale.  Sul piano biografico, il ‘nido’ significa per Pascoli il sacrificio a un passato irrevocabile e a una sorta di sacerdozio mortuario di tre giovani esistenze (Ida, Maria, Giovanni). Nell’ambito di un ‘nido’ così ricostruito, ma privo dell’intima giustificazione del primo, e soprattutto di avvenire riproduttivo al suo interno, si propone un’assunzione-confusione dei ruoli; cosicché prima Ida e poi Maria sono sorella, figlia, madre, e rappresentano nel contempo la donna, la femminilità; con un eros sublimato ma deviante (analogamente Giovanni assume tutte le corrispondenti figure maschili assenti, e per giunta concepisce come sacerdozio, inteso a fare ancora vivere i suoi morti, la poesia).  Quando nel 1895, Ida rompe questo circolo innaturale, sposandosi, il Pascoli piomba nella disperazione, per poi ricostituire quella sorta di morboso incantesimo con la sorella rimasta, ma con l’idea ormai chiara della precarietà di esso. [Il corsivo è nostro]  Anche in questo caso si può parlare di una nevrosi che cela un reale timore davanti alla vita; il ‘nido’ diviene la difesa opposta all’aggressione della società esterna, il luogo della non-scelta e della responsabilità elusa. Di un futuro giustificato sul passato, su una perduta certezza d’infanzia. […] Ma [nell’ambito del nido] l’immagine dell’eros negato si traduce in un’idea del sesso fatta di attrazione e di ripulsa: quasi una mancata crescita, un indugio all’età adolescenziale – un processo che la psicanalisi ha illustrato nella compenetrazione ambigua di eros e thanatos (impulso vitale e impulso di morte) sfociante in varie forme di rimozione e di sublimazione.” Si consideri questo dato concreto, trasmigrato e trasfigurato nell’arte: “…la madre che nella lirica ‘I due fanciulli’ va a sincerarsi, con la lampada in mano, che i figlioletti dormano rappacificati e sereni, è parificata analogicamente, alla fine della lirica, con la Morte, anch’essa rappresentata con la lampada accesa.” In proposito aggiungerei, che per naturale sviluppo metalettico, questa stessa immagine tende ad attribuire al “nido” la significativa duplice connotazione di culla protetta e di temuto sepolcro.
Beninteso, per quanto calzanti questi dati psicanalitici possano essere, ci si guardi dal farne strumento di indagine sommaria e arbitraria dell’incommensurabile profondità del genio creativo pascoliano. Né si dimentichi la ben più articolata problematica culturale che l’uomo Pascoli, in quanto artista, condivide con tutta una civiltà.  L’abbandono, ad esempio, delle certezze offerte dalle scienze positive e il conseguente rifugio in una dimensione irrazionalistica, mentre definiscono l’infrangersi di un’idea secolare di armonia del mondo e di razionalità del reale, sanciscono l’inquietudine della cultura di fine Ottocento, riconducibile ad un’ampia crisi storica e conoscitiva alla quale il nostro è tutt’altro che estraneo. 

E tuttavia, tenendo conto delle multiformi valutazioni e constatazioni che qui si è ritenuto in ogni caso utile segnalare (come pure sulla scorta della sconfinata saggistica di alta qualità che non solo in Italia si è prodotta sulla poesia del Pascoli, e che vi inviterei a voler verificare il più possibile per poterne anche trarre conclusioni autonome, pur sempre consigliabili ed auspicabili), proviamo a riguardarci la chiusa del poemetto: facciamolo, magari, con un minimo di questa maggiore consapevolezza acquisita.
Se la critica è giustamente concorde nel sostenere che dietro la maschera di Alexandros, come del resto quella di ogni altro protagonista antico che figura nei “Poemi Conviviali”, il soggetto lirico è pur sempre l’anima del Pascoli, con il suo “oscuro tumulto” e con le stesse tematiche più “soggettive” di “Myricae”, dei “Poemetti”, dei “Canti di Castelvecchio”, ebbene come non sospettare anche nell’excipit di questa lirica (da taluni un po’ troppo disinvoltamente liquidato comeenigmatico”) una vaga traccia di quelle intime conflittualità e insofferenze alle quali più sopra si accennava? Intorno allo spazio tranquillo ma segregato del focolare di Olympiàs – dove, per le fantomatiche vestali, anche il tempo parrebbe ruotare monotono e inarrestabile come il loro “fuso” stretto fra “ceree dita” (e soltanto candide di purezza? o forse pallide, smorte, queste operose dita? Curioso trovarle qualificate esattamente come, da D’Annunzio in “Consolazione”, le vecchie falangi di un’“ava” defunta) -- sembrano in qualche modo aleggiare, furtivi, anche i sospiri nostalgici dell’uomo Giovanni (“e il vento passa e passano le stelle”): gli inconfessabili dubbi di questo devoto figlio-fratello circa la validità categorica di forti legami sanguinei che, per quanto teneri e confortevoli, possono essere talvolta anche duramente privativi: per lui materia di sublime poesia sicuramente sì, e ciò nondimeno causa di non poche rinunce esistenziali e di soffocati rimpianti.  Il cuore ovattato del “nido” può dirsi rassicurante, ma emana il calore paradossale di un “sogno” felice che, col passare delle stagioni fugaci come il vento e come gli astri nel cielo, di giorno in giorno tristemente brucia e spegne la “vera” vita.





*   *   *

CONSOLAZIONE

(da “Poema paradisiaco” –  1893)
(Metro: quartine di endecasillabi rimanti secondo lo schema ABBA)

Non pianger più. Torna il diletto figlio
a la tua casa.  E’ stanco di mentire.
Vieni; usciamo.  Tempo è di rifiorire.
Troppo sei bianca: il volto è quasi un giglio.

Vieni; usciamo.  Il giardino abbandonato
serba ancora per noi qualche sentiero.
Ti dirò come sia dolce il mistero
che vela certe cose del passato.

Ancora qualche rosa è ne’ rosai,
ancora qualche timida erba odora;
ne l’abbandono il caro luogo ancora
sorriderà, se tu sorriderai.

Ti dirò come sia dolce il sorriso
Di certe cose che l’oblio afflisse.
Che proveresti tu, se ti fiorisse
La terra sotto i piedi, all’improvviso?

Tanto accadrà, ben che non sia d’aprile.
Usciamo.  Non coprirti il capo.  E’ un lento
Sol di settembre; e ancor non vedo argento
Su ‘l tuo capo, e la riga è ancor sottile.

Perché ti neghi con lo sguardo stanco?
La madre fa quel che il buon figlio vuole.
Bisogna che tu prenda un po’ di sole,
un po’ di sole su quel viso bianco.

Bisogna che tu sia forte; bisogna
Che tu non pensi a le cattive cose…
Se noi andiamo verso quelle rose,
io parlo piano, l’anima tua sogna.

Sogna, sogna, mia cara anima! Tutto,
tutto sarà come al tempo lontano.
Io metterò ne la tua pura mano
Tutto il mio cuore.  Nulla è ancor distrutto.

Sogna, sogna! Io vivrò de la tua vita:
in una vita semplice e profonda
io rivivrò.  La lieve ostia che monda
io la riceverò da le tue dita.

Sogna, ché il tempo di sognare è giunto!
Io parlo. Di’: l’anima tua m’intende?
Vedi? Ne l’aria fluttua e s’accende
quasi il fantasma d’un april defunto.

Settembre (di’: l’anima tua m’ascolta?)
ha ne l’odore suo, nel suo pallore,
non so, quasi l’odore ed il pallore
di qualche primavera dissepolta.

Sogniamo, poi ch’è tempo di sognare;
sorridiamo.  E’ la nostra primavera,
questa.  A casa, più tardi, verso sera,
vo’ riaprire il cembalo e sonare.

Quanto ha dormito, il cembalo! Mancava
allora, qualche corda; qualche corda
ancora manca.  E l’ebano ricorda
le lunghe dita ceree de l’ava.

Mentre che fra le tende scolorate
vagherà qualche odore delicato,
(m’odi tu?) qualche cosa come un fiato
debole di viole un po’ passate,

sonerò qualche vecchia aria di danza,
assai vecchia, assai nobile, anche un poco
triste; e il suono sarà velato, fioco,
quasi venisse da quell’altra stanza.

Poi per te sola vo’ comporre un canto
che ti raccolga come in una cuna,
sopra un antico metro, ma con una
grazia che sia vaga e negletta alquanto.

Tutto sarà come al tempo lontano.
L’anima sarà semplice com’era;
e a te verrà, quando vorrai, leggera
come vien l’acqua al cavo della mano.

(G. D’Annunzio)

Durante gli anni cosiddetti della “chimera” del “piacere” (1882-89), il genio precocemente fertile di Gabriele D’Annunzio, presto imbevuto d’ideale bellezza e di sereno naturalismo panteistico, s’intorbida di artificiose raffinatezze e di incontenibile carnalità.  La poesia accompagna questo decadimento con madrigali peraltro squisiti (“Intermezzo di rime”, 1883) che trasfigurano nella malìa del sogno, del suono e del senso le età passate e le passioni presenti (“Isaotta Guttadauro” e le “Elegie romane”). Ma di questo periodo interessano il racconto di “Giovanni Episcopo” (personaggio abulico che, soggiogato dall’altrui volontà, sprofonda nell’abbrutimento) e specialmente la trilogia dei “Romanzi della Rosa”, che oltre a “Il Piacere” (‘89), ampio affresco di un estetismo ormai dilagante in mezza Europa, comprende “L’innocente” (’91: con la bontà fiacca del protagonista Tullio Hermil) e “Il trionfo della morte” (’93: in cui Giorgio Aurispa invano tenta di superare il dramma di un amore infelicemente vissuto): tre espressioni dello sforzo impotente contro la sensualità incarnata nella donna tentatrice, “la fatale nemica”. Un inopinato infiacchimento del corpo e dello spirito, una crisi radicale in atto, suscita nel giovane D’Annunzio un profondo, seppur transitorio, bisogno di rigenerazione. Del resto, nel contesto de “Il Piacere” – senza dubbio un grande romanzo moderno che, a dispetto di ogni caduta retorica che gli si possa attribuire, rivela con straordinaria finezza un’effettiva sincera volontà di autoanalisi da parte dell’autore (il protagonista Andrea Sperelli è palesemente una sua controfigura), per molti versi paragonabile ad un intimo bisogno confessionale non dissimile, quale si profila nel “Diario di un Seduttore” di Soren Kierkegaard – mi sembrano caratterizzanti, veramente tipiche della personalità umana del nostro, le alterne oscillazioni fra il cinico desiderio di possesso carnale/psichico della donna, e la presa di coscienza della colpevolezza insita in quel dongiovannismo radicato e insuperabile.  
Sicché, ripudiata provvisoriamente una lascivia divenuta ossessiva, e con essa quella smania divorante di rinnovate “battaglie”, di spossanti quanto inappaganti tenzoni amorose, di eterne “guerre di conquista” che essa tipicamente comporta, il poeta avverte un improvviso, struggente desiderio di ritorno alle origini: un’intensa nostalgia quasi regressiva di grembo materno, di infanzia sacrificata forse troppo in fretta e troppo sconsideratamente sui giacigli impuri di Afrodite. Il “guerriero” Gabriele, a soli trent’anni d’età già stanco e interiormente esacerbato, vuole tornare a stringersi alla mano amorevole della madre per poterne ricevere in dono “la lieve ostia, che monda”.   Nel ripensare a lei con rimpianto (e di riflesso anche alla sorella, cui si rivolge -- nella poesia “Il buon messaggio” --  per impetrare solidarietà) compone alcune delle più delicate liriche del “Poema paradisiaco”. Il recupero dell’innocenza infantile attraverso il ritorno alle cose semplici e agli affetti familiari, è senz’altro il tema predominante della silloge, anche se in essa non mancano atmosfere e immagini sottilmente estetizzanti (languori di fiori appassiti, di statue corrose dal tempo, ecc.), che risentono del Decadentismo francese in particolare.

Rispetto ad “Alexandros”, “Consolazione” è una lirica assai più facilmente accessibile per la sua immediatezza semantica: la casa natia con il tepore del giardino dei ricordi disposto a rifiorire in un sole autunnale che sa di “qualche primavera dissepolta”, la presenza sempre affidabile di un amore limpido, sincero e dolce come il tintinnio di un avito clavicembalo riaperto, costituiscono il grande balsamo vivificante di cui la Donna-Madre – integra divinità lunare, dignitosa e compassionevole, in implicito contrasto con la maliarda Ecate, signora dei trivi -- si configura al poeta come privilegiata depositaria e sicura dispensatrice. Il figlio pudicamente finge di volerla “consolare”, mentre in realtà – con sufficiente chiarezza ce lo rivela -- è da lei che implora conforto e perdono. E pur sempre parecchio “angelicata” la percepiamo, anche quest’altra “bianca” figura materna, il cui volto “è quasi un giglio”: come Olympiàs, anch’essa, fra le pur naturali angosce per il suo “bambino” irrequieto e ramingo, chissà rimasta a coltivarsi “saggiamente”, in disparte, qualche migliore sogno sconosciuto? In quest’altro “nido” circoscritto e senza luce del giorno che vi penetri, svigorita, o forse paradossalmente sbiadita come le “tende”, nei recessi della sua “luminosa” spiritualità. Può darsi; ci è consentito crederlo, perché al “buon figlio” piace idealizzarla così: “Sogna, sogna, mia cara anima!…/!Io vivrò de la tua vita: /in una vita semplice e profonda /io rivivrò”; “sogna,” insiste, “ché il tempo di sognare è giunto!”: ma nulla vieta di immaginarcela anch’essa, “regina” di fatto quanto l’altra, già abitualmente e pericolosamente incline a sostentarsi in segreto con quell’assenzio ambiguo, voluttuoso e venefico, che è “l’infinita ombra del Vero.”   


Proposte di lavoro e di riflessione (in attinenza al “tema dell’anno”):
  1. “Il sogno è l’infinita ombra del Vero”: Leopardi, Pascoli e D’Annunzio si pongono analogamente – eppure con spirito diverso -- di fronte a questa drammatica verità esistenziale.  Quali le rispettive posizioni ideologiche e reazioni psicologiche nell’arte come nella vita? Se il tema vi ispira, illustrate mediante uno o più componimenti poetici il vostro atteggiamento “filosofico” personale rispetto al binomio realtà-illusione.  Una selezione di tali vostri elaborati verrà pubblicata in un’apposita antologia entro la fine dell’anno in corso.
  2. Eraclito ed Empedocle concepivano il “polemos” (la conflittualità in senso lato), ovvero il continuo alternarsi dell’amore e dell’odio, come base motrice dei fenomeni naturali e delle cose umane in genere. In assenza di tali contrasti, essi ipotizzavano una stasi mortifera, senza proficui sbocchi possibili. Ritenete che questo concetto di “guerra” inevitabile tra forze coesive e forze disgiuntive, ovunque operanti intorno a noi, sia scorretto? Vi sembra in ogni caso sostenibile che il sesso maschile sia da considerarsi esclusivo promotore riprovevole di aggressioni, di scontri bellici, di umana inimicizia?
  3. In rapporto al tema “la donna e la guerra”, le due liriche che abbiamo preso in esame sono state scelte in quanto: a) vi figurano due “guerrieri” parimenti ambiziosi -- l’uno, Alessandro Magno (“rivisitato” dal Pascoli con i connotati spirituali attribuitigli dalla letteratura medievale nei Romans d’Alexandre), eroe assetato di “conoscenza” tout court, l’altro, edonista insaziabile, avido di “conoscenza carnale” ad oltranza; b) entrambi uomini pugnaci e, seppure per vie fallimentari distinte, delusi dalla vanità delle loro aspettative di diversa “conquista”; c) entrambi “figli” inquieti, frustrati e più o meno nostalgici, idealmente contrapposti a sobrie figure “materne” dotate di una “superiore” forma di saggezza ctonia che tenderebbe a rifuggire dagli eccessi e, non di rado, a risolvere le proprie eventuali intime aspirazioni evitando semplicemente di realizzarle.  Non ritenete – ve lo chiedo con intenti provocatori e con un invito alla riflessione per conto vostro – che si tratti di un luogo comune ormai logoro e bisognoso di più obiettive verifiche?  Non vi sembra che questa “tradizionale” necessità di idealizzare la donna fino a disincarnarla per imprigionarla ad ogni costo nel ruolo puramente convenzionale di angelo della pace e di diafano custode del focolare, lungi da un tributo alla figura femminile sia invece stato, in fondo, una subdola forma di maschilismo alla rovescia? Sotto una “falsa” professione d’amore, cioè, un  tentativo narcisistico del maschio di proiettare in un’eterea controparte femminile le caratteristiche ritenute più “nobili” nella propria natura umana per poterle così impreziosire, magnificare, incorniciare, contemplare e finalmente adorare in uno specchio di puro cristallo? Un ingannevole “omaggio cavalleresco”, quindi, che in realtà costituisce un “fardello” psicologico posto sulle fragili spalle femminili con la pretesa egoistica ed unilaterale del maschio di vedere quel peso sempre retto senza cedimenti? Con l’imposizione di sapersi mostrare sempre all’altezza del compito, per non rischiare di tradire -- pena lo scandalo, il ripudio e il disprezzo -- un’immagine, oltre che assurda, dopotutto nociva per ambo i sessi? Per compiacere, in definitiva, le “sublimi fantasie” di un uomo-infante dall’aria magari ipervirile ma, di là dalle apparenze, penosamente insicuro e immaturo?  E, di riflesso, che dire del mito della virilità, l’altra faccia di una stessa medaglia?  Si mediti sulle conseguenze e reazioni deleterie che ambedue questi “miti” inconsistenti e fuorvianti purtroppo tuttora provocano, e non solo nelle società afflitte da arretratezza culturale o autoritarismo politico.
  4. il fanciullino pascoliano e il superuomo dannunziano sono stati definiti dalla critica due miti complementari. In effetti, pur nascendo negli stessi anni (il romanzo Le vergini delle rocce compare nel 1895, Il fanciullino nel 1897) appaiono antitetici.  Per citare Carlo Salinari in proposito: “lì la lussuria e qui l’innocenza, lì la violenza e qui la mansuetudine, lì il tono esaltato e qui la voce smorzata, lì gli oggetti e i paesaggi più esotici e strani, qui gli oggetti e i paesaggi di tutti i giorni, lì il lusso e qui la povertà, lì il dominio e qui la sofferenza”.  In realtà, a ben vedere, essi hanno radici nello stesso terreno, sono risposte diverse ma specularmene equivalenti ad analoghi problemi e traumi. Perché? Si rifletta tenendo anche conto delle trasformazioni sociali ed economiche sul finire del Secolo XIX; dei riflessi sui ceti medi; della crisi di una nozione di “uomo” vagheggiata dalla civiltà borghese; della declassazione degli intellettuali e del loro angoscioso smarrimento di fronte ad una realtà moderna che sfugge alla comprensione e al controllo.

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ESERCITAZIONI  “TECNICHE”  EFFETTUATE


Sulla base delle lezioni di metrica e fonosimbolismo già impartite dal sottoscritto lo scorso anno, e riesposte più dettagliatamente nella relativa dispensa (v. NOTA, in fondo al testo) da utilizzarsi come continuo sussidio didattico, si procedeva:
1.      ad un’attenta analisi della struttura (accenti metrici, accenti grammaticali, cesure, varianti ritmiche  ecc.) degli endecasillabi, perlopiù “canonici” in entrambe le liriche;
2.      ad una corretta lettura ad alta voce degli stessi versi (rispetto fondamentale del numero delle sillabe metriche volute dall’autore; concomitante necessità di non trascurare le pause di espressività determinate sia dalla punteggiatura, sia dall’imprescindibile valore semantico dei contenuti);
3.      al progressivo sviluppo, da parte degli iscritti, di una sufficiente consapevolezza delle peculiarità fonosimboliche delle due liriche, tale da favorire un più affinato apprezzamento della “poeticità integrale” del testo (contenuto più forma) e quindi del valore artistico complessivo dell’opera.





A)  Verifiche “tecnico-stilistiche” supplementari 

Abbiamo appena esaminato insieme due splendide liriche, anche se di impostazione alquanto diversa e, soprattutto, poco rappresentative dei modi del poetare solitamente privilegiati dall’uno come dall’atro autore.  Da un lato, un Pascoli che nei “Poemi Conviviali” (raccolti nel 1904, ma “Alexandros” risale addirittura a nove anni prima) si affida a raffinati stilemi classicheggianti la cui sontuosità ci appare in spiccato contrasto con le sue scelte lessicali e formali caratteristiche quanto innovative, del resto già fissate, fin dal 1891, con “Myricae”; dall’altro un D’Annunzio che, abbandonando momentaneamente quel connaturale gusto per l’aulico, il ricercato e il difficile che ovunque emerge in un percorso poetico degno della sua vita inimitabile (un precoce gusto già evidente fin dall’esordio “carducciano” con le rime paganeggianti in metri barbari di “Primo vere” -- nel 1879, a soli sedici anni! -- e con “Canto novo”, datato 1882) ecco che nelle delicate liriche intimiste del “Poema paradisiaco” (1893) ci regala versi di carattere “crepuscolare” per lui senz’altro atipici: nella loro languida musicalità trasognata, davvero “tenui come i teli/che fra due steli/tesse il ragno”. 
Eppure, malgrado queste devianze dalla rispettiva norma, forse che non si può effettivamente rintracciare qua e là il distintivo indelebile, in ogni caso chiaramente riconoscibile, sia dell’uno come dell’altro poeta? Quando in “Alcyone” (“Le stirpi canore”) D’Annunzio si compiace di descriverci la natura dei suoi “carmi”, definendoli “pieghevoli come i salici/ dello stagno”, si può dire che rivendichi una capacità comune ad ogni autentico poeta: l’arte di saper plasmare variamente la forma in funzione dei contenuti, senza che in questo adeguamento nulla vada perduto della “unicità del tocco”, della “individualità” irriproducibile dello scrittore.

B) Proposta di lavoro in merito: sotto quali aspetti stilistici (lessico, ritrovati retorici, immagini, atmosfera, ecc.) secondo voi permane in ogni caso identificabile la “firma” personale dei due diversi artisti nelle liriche studiate? Evidenziate per conto vostro i passi che, in questo senso, vi sembrano rappresentativi.

NOTA: Le lezioni oggetto di tale ‘dispensa’ sono state raccolte in una pubblicazione a cura della Casa Editrice Helicon, S.a.s., di Ponte a Poppi (AR) (www.edizionihelicon.com – E.mail: edizionihelicon@edizionihelicon.com), dal titolo “Fonosimbolismo e vocalità poetica” (novembre 2006), attualmente  reperibile presso tutte le maggiori librerie d’Italia, oppure su richiesta da indirizzarsi all’editore medesimo. 

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 Roberto Vittorio Di Pietro



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